sabato 15 maggio 2010
La crisi greca fuori dagli schemi
La pesante crisi economica greca preoccupa tutti, da mesi ormai leggiamo sui giornali e sentiamo in tv analisi, dibattiti, tutti gli esperti - e presunti tali - spiegano, approfondiscono, senza mai analizzare in fondo, parlare chiaro, menzionare le cause di questa crisi. Da decenni ormai, ogni volta che sento parlare o leggo qualcosa sulla Grecia, vedo ripetersi puntualmente il rito folkloristico di un'immagine stereotipata, quella del Partenone, del sirtaki, del formaggio feta e delle isole Cicladi. Della realtà economico-sociale della Grecia si ha un'idea approssimativa, la si immagina come una copia del mezzogiorno italiano. Una cosa è certa: le scelte scellerate dei governi precedenti, sia di centro-destra che di centro-sinistra hanno ingigantito un problema che c'era già negli anni '80: un debito pubblico insostenibile, un deficit di spesa astronomico senza realistiche possibilità di risanamento. Ma la partita che si sta giocando non è solo questa: in realtà si sta facendo un esperimento di applicazione autoritaria di selvagge politiche neolineriste e una volta visti i risultati, si cercherà di esportare con le buone o con le cattive anche agli altri Paesi deboli dell'area euro (i cosiddetti PIGS) o europei in generale. La Grecia era l'anello più fragile della catena dal punto di vista economico, e con una realtà sociale molto articolata e difficile da gestire. La crisi greca non è nata -solo- per i motivi che ci vengono sbandierati in tutte le salse ogni giorno: il parametro del debito pubblico in rapporto al PIL è importante ma non è sufficiente per portare alla catastrofe: per il Giappone il rapporto Deb. Pubbl /PIL è del 180%, per il Canada del 100%, per la stessa Italia sfiora il 120%. La Grecia però, a differenza di questi paesi ha un'economia quasi parassitaria, il settore industriale è quasi inesistente, quasi il 20% della popolazione attiva lavora nel settore pubblico, 800.000 persone su una popolazione di 11 milioni pagano l'80% del gettito fiscale, esiste un reale problema di corruzione diffusa. Il livello dei salari è leggermente più alto rispetto all'Italia (vedi i dati OCSE che sono usciti in questi giorni) e per di più il sindacato -soprattutto quello del pubblico impiego- è molto forte, la sinistra radicale è presente in parlamento e nel paese, e poi c'è ancora un partito comunista che non ha cambiato nome e prende l'8% alle elezioni, esiste una miriade di movimenti, movimentini, gruppi "vivaci" o al limite della legalità, che da anni non perdono l'occasione di manifestare, fronteggiare le forze dell'ordine, occupare, fare cortei spontanei, bloccare il traffico, e in situazioni di emergenza bruciare macchine, negozi di lusso, banche, supermercati. Secondo il mio modesto parere le misure di contenimento del deficit (sangue e lacrime) adottate dal governo -socialista- greco non avranno i risultati sperati, le fasce meno garantite della popolazione sopporteranno l'intero peso dell'operazione, non ci sarà nessun risanamento, nessuna lotta all'evasione, con le privatizzazioni delle granzi aziende pubbliche aumenterà invece di diminuire la corruzione, buona parte delle piccole e medie imprese chiuderà, la disoccupazione aumenterà a livelli America anni '30, i privilegiati e i furbi continueranno a fare il bello e il cattivo tempo in un paese impoverito, in ginocchio e in crisi perenne.
Su internet ho trovato un articolo di impressionante lucidità che parla dell'argomento e non posso fare a meno di riportarlo qui:
Da: www.dirittiglobali.it - NEWS (Europa / Lavoro, Economia & Finanza nel mondo)
14 - 05 - 2010
Fonte: il manifesto
Eurogolpe, ovvero l'ideologia greca
di Tommaso Di Francesco
Per qualcuno l'autoritarismo era già implicito nella costruzione europea e nel vincolo del patto di stabilità, altri sosterranno che la scelta è oggettiva, visto il livello della crisi, evidente dalla furbizia e dal crack di Atene. Non è così. Con la decisione del 12 maggio, seguita alla maratona notturna di Ecofin e Bce che ha stabilito un fondo prestiti straordinario di 750 miliardi di euro insieme al Fmi per sostenere le crisi finanziarie dell'Eurozona, la Commissione Ue ha avviato una svolta autoritaria, un vero e proprio eurogolpe. Prendendo la palla al balzo. Perché, approfittando della crisi greca, fa di questa materialità una ideologia (falsa coscienza) che rischia di spostare ancora più a destra, se possibile, l'asse politico dei paesi europei.
Già il patto di stabilità era un vincolo di bilancio che non poteva essere sforato per la "correttezza dei conti", essendo il debito l'oggettività primaria di una Europa senza istituzioni politiche ma con la sola entità monetaria dell'euro. Non altre priorità, come l'occupazione, la formazione, le innovazioni tecnologiche e ambientali. Questo è l'Europa, solo una moneta. Che ora diventa governo, anzi direttorio di brocker. Va da sé che la centralità è la presunta oggettività dei bilanci, come se ad essi non presiedessero scelte politiche, indirizzi di spesa, individuazione di priorità sociali e strategiche ad esaltazione o a deprimento di altre. Come se nei bilanci non si individuasse la ragione politica delle scelte di classe di un governo e di quelle democratiche dei parlamenti. Il patto di stabilità era, fin qui, un'ombra che già aveva contaminato l'intera vicenda dei beni comuni, con l'obbligo delle privatizzazioni ovunque, la cancellazione di ogni ipotesi di nazionalizzazione o di controllo sociale dei beni. Eravamo finora al solo indirizzo, pericoloso, che ha di fatto modificato i comportamenti delle leadership politiche di destra e di sinistra che si sono avvicendate alla guida dei paesi europei.
Ora con la svolta di Bruxelles presentata da un Barroso sempre sornione e inutilmente sorridente, siamo al diktat attraverso la definizione di strutture istituzionali e modalità che azzerano le aspettative di allargamento della sovranità popolare in Europa intesa come segno più alto e democratico per una cessione di sovranità nazionale. La Commissione europea ha infatti deciso: di controllare preventivamente i conti pubblici degli stati, di valutare e giudicare le varie finanziarie prima dei parlamenti, di estendere al debito pubblico verifiche finora concentrate sul rispetto del 3% nel rapporto deficit/pil; inoltre vara strumenti di cauzione e penalty e in più un semestre di "sessione" speciale, quasi un presidio dedicato a queste priorità. Qualcuno ci leggerà la nascita finalmente dell'Europa. Eppure è evidente che questa novità se sottolinea una dura e forte intenzione politica, la mette subito al servizio del dominio dell'attuale sistema finanziario che tiene nelle mani il mondo e determina le sue diseguaglianze, e che è stato fin qui responsabile sia della crisi americana che di quella greca ed europea. Verso il quale nessuno intende proporre - figuriamoci - alcun controllo o penalty secondo interessi.
Ne derivano alcuni stravolgimenti dell'agenda politica. Mentre già tutti corrono ad adeguarsi, come fa Zapatero che, vale la pena ricordarlo, così facendo costruisce probabilmente la sua uscita di scena del resto anticipata dal disastro sociale della disoccupazione spagnola arrivata alla soglia del 20%. E mentre il ritorno dei tories al potere in Gran Bretagna nell'inedita coalizione con i lib-dem, avviene sotto il segno smaccato dell'antieuropeismo e della rivendicazione anti-euro, per stare ancora di più fuori dai meccanismi e dai costi dell'Unione. Già. Perché la centralità del cosiddetto debito pubblico, vuole ideologicamente azzerare la differenza sostanziale tra debito sociale (quello che lo stato deve ai suoi cittadini, stipendi del pubblico impiego, pensioni, servizi, protezione sociale, welfare ecc. ecc.) e il debito finanziario, quello che prende la forma dei titoli emessi dallo stato e che va sul "libero" mercato. Solo quest'ultimo naturalmente può essere rimesso, cioè rimborsato prioritariamente, salvaguardato, sostenuto e diventare mercanteggiamento tra prestiti vantaggiosi per chi li fa e paesi "Pigs" così indebitati e per questo impoveriti come la Grecia. L'altro naturalmente non ha protezione, non viene difeso. Parole giuste come "interventismo publico" e "cessione di sovranità nazionale" acquistano così, con le brutali decisioni di Bruxelles, non il senso di un allargamento dell'Unione europea politica e della sua democrazia, come avrebbe dovuto essere, ma una svolta autoritaria e unilaterale in difesa del rigore di bilancio a salvaguardia degli interessi del mercato, in primis finanziario.
Chi ci guadagna? Al di là delle banche, già responsabili delle crisi in corso, si produce un'ulteriore dinamica politica che chiameremmo l'ideologia greca. Con esaltazione di un nuovo "centro politico" per l'occasione rinnovato - vedi le manovre oltre-Berlusconi in Italia - e se necessario, anche populista e anticorruzione, da casa Scajola a CasaPound per intenderci. Perché bisognerà pure cavalcare insieme l'autoritarismo necessario al "rigore del debito" e la drammatica divisione sociale che esso produce. Né è da escludere che, formalmente ma significativamente, anche nel cuore d'Europa, in Germania - sforatrice anch'essa del patto di stabilità - il parlamento protesterà, a sinistra ma soprattutto a destra, contro questa rivendicazione centralistica di Bruxelles che pure va nell'interesse di Berlino. E addirittura in Italia, alle prese con il "federalismo fiscale" dei privilegi.
E a sinistra? Non basta davvero appellarsi ad Obama: è il miglior presidente per gli Stati uniti, ma la sua America ci guarda interessata, per scaricare costi della sua crisi e per vigilare che le soluzioni qui non contraddicano l'ipersostegno alla finanza privata approntato già negli Usa. E pensare che l'allargamento forzato a 27 dell'Ue ha avuto origini e radici nella necessità strategica americana, attraverso l'Alleanza atlantica, di includere-annettere come satelliti della Germania i paesi dell'est-Europa.
A questo punto, in quanto a protesta sociale e dei lavoratori, non basteranno più i tetti su cui salire, né la rabbia greca, né una prospettiva solo sindacale, se non si affronta il nodo di una alternativa sulla ripartizione equa del lavoro alienato e sulla nuova natura sociale (di cittadinanza?) del salario. Visto che già si avventano come cani rabbiosi sullo "spreco" della cassa integrazione e già perfino la Ggil si prepara ad una buona accoglienza dei tagli imposti dalla Commissione Ue.
Comunque, il fatto è che "la sinistra che abbiamo conosciuto" non solo non c'è più in Italia - come scriveva Luigi Pintor - ma tantomeno in Europa. E invece questa potrebbe essere l'occasione per sparigliare il gioco sporco, invertire il senso comune della crisi e raccontarla diversamente. E diversamente ricostruire un agire dal basso.
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