Su http://gazikapllani.blogspot.com/ ho trovato questo pezzo che ho tradotto alla meglio e riporto qui. Non è certo un’opera letteraria, ma mi sembra una significativa testimonianza dalla quale si possono trarre molti spunti per riflettere…
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Dr Spyros Orfanos, psicoanalista e ricercatore, direttore dell’University Psychoanalytic Clinic dell'Università di New York, nel suo "Diario delle frontiere” racconta i suoi viaggi esistenziali e quelli dei suoi genitori ...
"Sono nato nel 1951 a New York. In un posto chiamato French Hospital, che non esiste più. Allora gli ospedali erano confessionali, principalmente ebraici o cattolici... "
Gli immigrati avevano timore di andare negli ospedali 'normali', perché controllati dalla gente del posto, i bianchi protestanti anglosassoni. Quindi i vari gruppi etnici avevano creato i propri ospedali e le loro scuole. Sono cresciuto a Manhattan, in un condominio popolare, destinato a gente povera. Eravamo al quinto piano, accanto a noi c’era una famiglia serba e una di Puerto Rico. Il gabinetto era fuori dall'appartamento. Sono cresciuto in un quartiere povero, proletario. C’era molta gente che veniva dai balcani, il quartiere era chiamato “la città greca”, all’ottava Avenue tra la 23ma e la 34ma strada. C'erano drogherie greche, bar notturni e una grande chiesa ortodossa, Aghios Eleftherios.
Mio padre è arrivato in America illegalmente. È scappato dalla nave dove lavorava come operaio a Baltimora nel 1948. Molti dei miei parenti erano venuti in America nello stesso modo. Mi ricordo ancora i poliziotti dell’Ufficio Immigrazione (i “preti” come li chiamavano i greci) che li venivano a cercare. Li prendevano, li mettevano in prigione e in seguito venivano espulsi dal Paese. Era terribile. Alcuni tornavano. Mio zio, lo zio Giannis, è stato preso ed espulso cinque volte. Alla sesta volta ce l’ha fatta. Di solito gli espulsi oppure chi voleva entrare illegalmente negli Stati Uniti andava a lavorare come operaio o mozzo nella marina mercantile (era semplice allora). Dopo mesi oppure anche anni di viaggio, prima o poi la loro nave attraccava ad un porto statunitense, New York o New Orleans. Coglievano quindi l’occasione, di solito durante la notte, scappavano dalla nave ed entravano in America...
Mio padre non parlava mai di questa sua esperienza, dovevo chiederglielo io. Parlava però con i suoi amici. Dalle conversazioni dei grandi mi rimane la sensazione di paura verso i poliziotti dell’Ufficio immigrazione. Solo quando sono diventati cittadini americani questa paura si è affievolita. Mi ricordo ancora che i miei genitori e i miei parenti si sentivano ansiosi e terrorizzati di fronte ai funzionari pubblici, ai timbri, alle pratiche e le procedure per ottenere certificati. C’era sempre il timore che qualcosa potesse andare storto. Qualche volta, adesso, con amici e conoscenti che vivono in America come immigrati faccio la battuta: "Mi faccia vedere i documenti!", mi fermo però subito. Perché mi ricordo che per la mia famiglia questa era la paura più grande. Che qualcuno li potesse fermare per strada e chiedere: 'Posso vedere i vostri documenti? ". A quel tempo i greci non erano benvenuti. Le porte per gli immigrati che venivano dai Paesi Mediterranei erano chiuse ermeticamente. A meno che uno non venisse dai Paesi del Nord Europa. La xenofobia e il razzismo imperavano, era in vigore la politica del contingentamento (per ogni Paesi veniva stabilita una quota massima di immigrati, nota mia). Le porte si aprirono di nuovo nel 1964. Ci sono state due grandi ondate di immigrati greci in America. La prima dal 1890 fino al 1924 e la seconda negli anni ‘60 fino ai primi anni '70. Mio padre è venuto tra queste due ondate, quando la maggior parte dei greci entrava in America illegalmente.
Mio padre e mia madre sono nati e cresciuti in una piccola isola di Corfù, la Erikousa, dove l'Adriatico incontra il Mar Ionio. Erano già sposati, quando mio padre è venuto in America. Mia madre è venuta qui per rimanere incinta e poi tornare all'isola ma non è più tornata. Mio nonno, il padre di mia madre, era venuto molti anni prima in America ed aveva ottenuto l cittadinanza americana. Aveva un piccolo ristorante a Manhattan, "Pure Food» si chiamava. Oggi lo vedo dalla finestra del mio ufficio presso la clinica dell’Università di New York dove sono direttore. I miei genitori non parlavano l’inglese, forse perché non volevano essere assimilati. Hanno vissuto con il sogno di tornare in patria.
Fino all’ età di sette anni non parlavo inglese. I miei mi hanno mandato alla scuola greca. Mi ricordo la mia insegnante, la signora Filippa. Era una narratrice incredibile. Quando sono andato alla scuola americana, gli insegnanti pensavano di avere a che fare con un ritardato mentale, perché non parlavo inglese. Poi qualcuno ha detto: "Ma se è così bravo in aritmetica, non può essere ritardato”. Amavo la scuola. Mio padre aveva fatto solo le elementari. Ma mi ha insegnato la tavola pitagorica. È stata la prima volta che mi sono sentito vicino a lui. Mio padre lavorava per tutto il giorno senza riposo. Faceva il fornaio. L’ho visto andare in vacanza per la prima volta nel 1959. Siamo partiti insieme e siamo andati in Grecia, a Erikousa. Ci sono voluti sette giorni di viaggio con "Queen Frederica". Erano undici anni che non vedeva sua madre. Ereikoussa allora non si poteva trovare sulle mappe, solo su quelle militari. Gli isolani che emigravano vivevano sempre con l’ansia di non poter mai più tornare indietro. Pur non essendo mai stato lì, conoscevo tutto sull’isola. Posso dire che per me Manhattan era un prolungamento di Erikoussa. Mia madre mi parlava continuamente della sua isola, quanto era bella e meravigliosa. Mi parlava in particolare del periodo dell’occupazione tedesca e del terrore che incutevano i nazisti. Gli isolani hanno perso la loro innocenza allora. Prima erano pescatori e marinai. Con l'occupazione tedesca, il volto terribile del mondo esterno ha invaso la loro casa. Quando hanno occupato l’isola gli italiani, non si erano spaventati, forse perché la maggior parte di loro parlava italiano. La famiglia di mia madre ed altre famiglie hanno nascosto degli ebrei che venivano da Corfù, dove che i tedeschi li perseguitavano con ferocia. Anni più tardi, a Manhattan, abbiamo ricevuto una telefonata, una signora chiedeva di con i miei genitori. Non so in che modo avesse trovato il numero di telefono dei miei. Era una delle figlie di una famiglia di ebrei che si era nascosta nell’isola. Il suo nome era Sarah e viveva in California. Mi ricordo ancora l'emozione e la gioia dei miei genitori, mentre parlavano con lei …”
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