giovedì 19 gennaio 2012
I bassi salari colpiscono la produttività
Stefano Perri fonte: il manifesto 12 gennaio 2012
Si parla molto, in questa difficile situazione economica, di equità. Tuttavia la parola rischia di perdere significato. La parola equità, secondo la definizione del dizionario, deriva dal termine eguaglianza ed è sinonimo di giustizia, imparzialità: una misura o un’azione è equa se non favorisce in modo ingiustificato un soggetto o un gruppo di soggetti rispetto ad altri.
Tuttavia la parola assume significato solo se si dichiara rispetto a quale sistema di valori si intenda perseguire l’equità. Nella situazione attuale, ma la distinzione risale molto indietro nel tempo, mi sembra che si confrontino due concetti differenti di equità: il primo si riferisce principalmente alle regole del mercato. In questo senso sarebbe iniqua qualsiasi situazione favorisca un gruppo rispetto a un altro distorcendo le regole del mercato e producendo rendite di posizione, ad esempio, per le generazioni presenti rispetto a quelle future, per le imprese protette dalla concorrenza rispetto a quelle che operano in settori aperti, o per i lavoratori garantiti rispetto agli altri e via dicendo. In questo senso, per fare un esempio banale, una partita di calcio è equa se sono rispettate le regole del gioco.
A questa concezione se ne contrappone un’altra, secondo la quale l’equità è prima di tutto giustizia intesa come eguaglianza non solo nelle regole che governano la competizione, ma nella possibilità che tutti possano esercitare effettivamente i propri diritti, sia individuali che sociali ed economici, in modo da poter usufruire delle opportunità e perseguire i propri obiettivi di felicità, crescita e autorealizzazione.
Una partita di calcio tra una squadra di serie A ed una di terza categoria non sarebbe equa, pur rispettando le regole, per lo squilibrato rapporto di forze tra le squadre in campo. Il più diffuso manuale introduttivo di economia del dopoguerra, «Economia» di Paul A. Samuelson, spiegava la differenza tra i due concetti di equità in questo modo: in un’economia di mercato il cane di un ricco può ricevere il latte necessario a un bambino povero per non diventare rachitico. Le scelte di ciascuno pesano per il reddito e la capacità di acquisto differente su cui ciascuno può fare affidamento. Di conseguenza il diritto del bambino a uno sviluppo sano può essere eluso rispettando in pieno le regole del mercato. I sostenitori della prima concezione accusano spesso di ideologismo i sostenitori della seconda. Tuttavia non c’è ragione per cui la prima concezione non possa anch’essa esprimersi in termini del tutto ideologici, senza riferimenti ai dati di fatto. In un recente articolo sul Corriere della Sera del 2 gennaio, Alesina e Giavazzi hanno sostenuto che il fatto che i salari medi dei lavoratori italiani siano molto inferiori a quelli dei lavoratori europei non solleva una questione di equità, ma rispecchia la minore crescita della produttività del lavoro in Italia. Da questo punto di vista i bassi salari non sarebbero iniqui, perché riflettono le regole del gioco.
I due autori notano infatti che «i salari dipendono dalla produttività, che in Italia è cresciuta molto meno che negli altri Paesi europei». Tuttavia i due autori non si preoccupano minimamente di verificare se i dati sostengano effettivamente l’idea che la causa dei bassi salari italiani sia legata all’andamento della produttività del lavoro nel nostro paese in relazione alle altre economie.
Da una elaborazione dei dati Ameco si traggono informazioni importanti raffrontando i dati relativi alle variazioni percentuali dal 1980 al 2000 delle retribuzioni reali del lavoro e della produttività del lavoro. I dati riguardano la Germania, la Spagna, la Francia e l’Italia e partono dal decennio 1980, nel quale, in tutti i paesi considerati, i salari reali cominciano a crescere in misura minore della produttività del lavoro, cosicché la quota dei salari sul reddito comincia a diminuire. Tuttavia, negli anni Ottanta la crescita dei salari reali in Italia è superiore a quella degli altri paesi, mentre la crescita della produttività del lavoro è più omeno in linea con quella degli altri paesi (superiore alla Germania, ma moderatamente minore che in Francia e in Spagna).
La differenziazione rispetto agli altri paesi europei si concentra negli anni Novanta. Si noti bene che in questo decennio la crescita della produttività del lavoro è addirittura in Italia più alta degli altri paesi. Ma è proprio in questo decennio che i salari reali rimangono indietro in Italia, crescendo rispettivamente di 6,3, 6,69 e 9,13 punti percentuali in meno della Spagna, della Germania e della Francia. È viceversa solo nel primo decennio del 2000 che la produttività del lavoro in Italia smette di crescere, e addirittura diviene negativa, mentre negli altri paesi la crescita di questa variabile rallenta, ma rimane pur sempre positiva. In questo periodo però, contrariamente alle attese, le retribuzioni reali dei lavoratori italiani crescono, sia pure in misura moderatamente inferiore alla Spagna e consistentemente inferiore alla Francia. In Germania l’andamento dei salari reali ha addirittura un segno negativo. I dati raccontano quindi una storia ben diversa da quella narrata da Alesina e Giavazzi. La presunta causa dei bassi salari in Italia, il rallentamento e la diminuzione della produttività del lavoro, si è effettivamente verificata solo dopo il presunto effetto. Nel mondo dell’economia effetti che si verificano prima della loro causa non sono possibili. La verità è che i due economisti non hanno tenuto in considerazione uno degli accorgimenti metodologici più elementari della disciplina: la marshalliana clausola del ceteris paribus. Se tutto il resto rimanesse lo stesso, potremmo sostenere ragionevolmente che le variazioni dei salari reali siano la conseguenza delle variazioni della produttività del lavoro. Il problema è che tutto il resto non è rimasto affatto lo stesso e l’andamento dei salari nelle economie considerate è stato determinato più consistentemente dai mutamenti delle condizioni istituzionali, sociali e politiche che dalle variazioni della produttività del lavoro. Dato l’ordine temporale degli avvenimenti, non sarebbe inopportuno considerare la tesi opposta. La produttività del lavoro non è cresciuta in Italia anche perché i salari sono rimasti fermi. La tesi che la produttività del lavoro possa essere considerata una funzione proporzionale ai salari reali può scandalizzare molti dei nostri economisti ortodossi, ma in realtà è stata argomenta, in diversi contesti, da numerosi grandi economisti, a partire proprio da Adam Smith per arrivare a Joseph Stiglitz.
http://www.controlacrisi.org
Se questo è vero, agli economisti resta il compito di spiegare quali fenomeni di natura istituzionale e riguardanti la struttura industriale della nostra economia hanno portato alla concentrazione in Italia di un fenomeno come la diminuzione della quota dei salari sul reddito che, benché si sia anche verificato nella maggior parte delle economie sviluppate, nel nostro paese ha assunto, nel decennio 1990, un carattere molto più violento che altrove. Per la discussione di politica economica e politica in senso più lato, il problema della retribuzione del lavoro e della distribuzione del reddito in Italia si conferma senza dubbio un problema centrale dal quale non si può prescindere se si vuole parlare, con un minimo di cognizione di causa, di equità.
Pareggio di bilancio, un’attentato alla democrazia
15/01/2012 di giuseppearagno
Si dice – e dev’esserci un fondo di verità –
che Iddio acceca chi condanna a perdersi. Si levano da più
parti lamenti scandalizzati per il referendum sulla legge elettorale
che la Consulta ha giudicato inammissibile e c’è chi si mostra
sorpreso per le reazioni degli immancabili “illuminati”.
La verità è che da tempo immemorabile ormai, la cosiddetta “società
civile” fa danni come si muove e se è onnipresente, quando la
discussione si fa sulla “lana caprina”, stupisce per
l’ostinato silenzio, se in gioco ci sono le questioni scomode e gli
equilibri legati alle formule bieche del “politicamente
corretto”. Sono anni che andiamo avanti così ed era fatale:
siamo al capolinea. Dopo che Scalfari ha dato dell’imbecille a chi
provava ad avanzavare dubbi sulla costituzionalità dell’operazione
Monti – e il privilegio della “consacrazione” è
toccato anche a me, che sul Manifesto i miei dubbi li ho
esposti – appare sempre più probabile che un Dio onnipotente si
sia messo all’opera per ridurci al ruolo di oche starnazzanti per
la sicurezza del Campidoglio, mentre l’Urbe va a fuoco e non c’è
chi provveda. Chi, se non la divina cecità dell’amore, ha spinto
“Libertà e Giustizia” a ventilare non so che “sciopero del
voto” e indotto, per converso, Flores d’Arcais, a quella sorta di
dispetto infantile, che chiama i cittadini a votare, perché c’è
una legge con cui non si può… votare?
Un rischio mortale incombe sulla vita della
democrazia. Si profila all’orizzonte ogni giorno più chiaro, ma
non preoccupa praticamente nessuno, non scatena indignate proteste
dell’accecata – o complice? – “società civile”:
la maggiominoranza di nominati che siede in un Parlamento ridotto
ormai a una sorta di svergognata Camera dei Fasci e delle
Corporazioni, tiene in piedi un Governo mai eletto e onnipotente –
eccolo il marchingegno fraudolento – pronto a varare una “modifica”
costituzionale che inserisce nella Carta il cosiddetto “pareggio di
bilancio”. Nella forma tutto ha i crismi della santità, nella
sostanza è una pugnalata vibrata al cuore della democrazia, un colpo
mortale che cancella ogni possibile autonomia della politica e chiude
le vie praticabili a qualunque serio provvedimento di tutela sociale.
“Costoso” si dirà domani, eppure sacrosanto.
Quando tutto questo sarà accaduto, un buon
ragioniere basterà a governare la repubblica e nessuno potrà più
rimediare al danno e far sì che si torni alla situazione attuale.
Quale che potrà essere la legge elettorale che avremo, e non c’è
da sperare in provvedimenti miracolosi, un dato è certo, e per
questo occorre ringraziare il presidente Giorgio Napolitano: non vi
sarà mai una maggioranza numericamente sufficiente e politicamente
alternative alla maggio-minoranza che sostiene Monti, in grado di
cancellare le riforme già approvate alla Camera e al Senato in prima
istanza e quelle che in un prossimo futuro Monti intende realizzare.
Due terzi del Parlamento e neanche la possibilità di reagire,
raccogliendo firme per un referendum! Non c’è legge elettorale in
grado di riproporre questa situazione. Per condurci a questa tragica
crisi era necessario che accadesse quello che c’è passato sotto il
naso, mentre manipoli di manipolati salutavano il “nuovo 25
aprile”. Gli storici diranno domani cos’è stata davvero questa
seconda liberazione. A noi tocca oggi prenderne atto e denunciarlo:
sarà impossibile cambiare di nuovo la Costituzione. Una via sola
rimane: dar fondo alle energie, mettere assieme le intelligenze,
alimentare il dissenso e costruire al più presto una straordinaria
mobilitazione che sbarri il passo alla reazione e ponga fine a questa
sorte di agonia della Costituzione, che apre la via a un vero e
proprio omicidio di quello che un tempo chiamavamo “Stato
sociale”.
Uscito su “il
Manifesto” del 18 gennaio 2012.
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